Teofanie, ierofanie, rivelazioni

Sommario

Il saggio traccia le coordinate della manifestazione del sacro in base a una fenomenologia ormai consolidata e collaudata. Dapprima si mette in luce la difficoltà di parlare del sacro, data la sua presenza/assenza nell’ambito dell’esperienza religiosa iscritta nella coscienza umana. Il metodo fenomenologico aiuta a capire come la manifestazione del sacro resti essenzialmente tra due sponde invalicabili: la presenza e, nello stesso tempo, la sua «eccedenza» che non permette mai una qualche presa di possesso. In un secondo momento si presenta una descrizione della manifestazione del sacro come si può ricavare dalla storia delle religioni. Il sacro si mostra, si offre nella storia, basta saperne cogliere le «sporgenze» a partire da vari fenomeni: le pietre, il monte, l’albero cosmico, ecc., a partire dai luoghi «numinosi» e dalla luce che emana: i profeti, i veggenti, gli sciamani hanno colto quella luce. Le modalità antropologiche di darsi del sacro sono ancora più significative: l’uomo «resta sconvolto»: le visioni, i miracoli, le trances, le estasi sono forse le testimonianze maggiori dell’invisibile nel nostro mondo di oggi come di ieri.

1. Introduzione

Il mondo dell’esperienza religiosa vive da sempre come «sdoppiato»: ha una doppia coscienza, vive in una situazione critica e di conflitto e soffre di una contraddizione quasi insanabile, frutto dei due risvolti facenti capo a due realtà collaudate da tutta la storia delle religioni: il mondo quotidiano e il mondo dell’esperienza religiosa. Si tratta di due mondi che si compenetrano a certi livelli, ma non si integrano se non idealmente, mantenendo poi la loro propria appartenenza come qualcosa che rimane inconciliabile.

In altre parole, si potrebbe dire che l’uomo religioso deve tenere insieme due «orizzonti di significato», ambedue fondamentali, e tuttavia non sovrapponibili: il «visibile» e l’«invisibile». Se infatti, per noi «aprire gli occhi» è come «aprire la finestra»: si guarda fuori e ci si trova in presenza del mondo attraverso un insieme di dati sensoriali – e questo è un «dato», anche se ci sono filosofi che sostengono che la fiducia nei sensi è mal riposta –, succede che anche «gli occhi della fede» – secondo la famosa espressione di Pierre Rousselot – «vedono» mettendoci in presenza di una realtà «che appare»; anche gli occhi della fede sono «finestre» che si aprono sull’invisibile, sul mondo del sacro e del divino che si manifesta.

Ora, l’uomo credente dà il suo assenso ad ambedue questi mondi, giungendo fino al punto da non saper scegliere quale sia il mondo più reale e più autentico. Chi crede davvero non può infatti mettere in secondo ordine il mondo «sovrannaturale» rispetto al mondo «naturale» in cui vive e opera. Vive, dunque, dibattuto tra due livelli di realtà.

Gregory Bateson, a questo punto, direbbe che l’uomo religioso è portato da una certa «schizofrenia» istintiva e naturale: si tratterebbe, infatti, del double binding di chi è preso tra due modi di vedere, tra due prospettive totalmente diverse e che deve tenere unite, pur essendo queste diverse, totalmente differenti. Deve tener presente il «mondo di qua», deve avere dunque i «piedi per terra», e nello stesso tempo, però, il credente mantiene gli occhi rivolti verso il «mondo di là», vivendo sulla linea di confine tra il visibile e l’invisibile, sapendo che questo secondo emisfero a volte e in determinate condizioni «si fa visibile» e diventa più reale del reale.

Dobbiamo sottolineare, tuttavia, che non si tratta di due «mezze realtà», si tratta di una realtà tutta intera, anche se, nel suo aspetto «invisibile», tale realtà non trova mai una sua configurazione definitiva; eppure anch’essa «urge», «incalza» il credente, in maniera altrettanto forte al punto che è qualcosa che vive con lui e si pone accanto a lui come qualcosa di insostituibile, divenendo spesso il referente ultimo e più importante della sua vita.

Si profila dunque la coesistenza più o meno apparente di mondi diversi che prevedono due percorsi differenti sul cui filo rosso si pongono la nostra esistenza e le nostre aspettative. L’interazione dei due orizzonti di senso è possibile, ma spesso è difficile, molte altre volte appare impossibile. Occorre dire, tuttavia, che la coscienza è «una sola» e lo sdoppiamento, per certi aspetti, è soltanto apparente. Così come è unitaria la coscienza «percettiva», altrettanto è unitaria anche la coscienza «intenzionale», al punto che soltanto metaforicamente si può parlare di sdoppiamento e duplice polarità: ogni coscienza abbraccia e, nello stesso tempo, «costituisce» il suo proprio mondo in unità.

Una fenomenologia vera sa che non esiste altro di diverso dalla coscienza stessa del mondo e dalle sue intenzionalità, siano esse «dirette», «co-fungenti» o «passive», secondo l’insegnamento di Edmund Husserl[1]. Nel nostro contesto, dunque, la difficoltà è ancora maggiore, in quanto ciò che è «altro» da noi, l’orizzonte diverso, inattingibile e «in-audito», sembra nascere entro di noi, sembra avere una risonanza intima nel nostro io più profondo, quasi a nostra insaputa, e sembra tenere sotto scacco le nostre possibilità immediate di attuazione e di realizzazione della nostra visione coscienziale.

Tutto ciò prende forma e contenuto nell’idea del sacro che si fa portavoce di questa alterità irriducibile e tuttavia costitutiva di un orizzonte inalienabile di significato che ci appartiene. Il sacro è questa realtà «invisibile», è l’altro, è l’alterità che ci abita, è ciò che non combacia con le istanze di questo mondo, ma nasce da un’esigenza dello spirito. Infatti il sacro è ciò che, per definizione, è «separato», ciò che non entra in dialogo con il mondo del quotidiano e tuttavia trova un fondamento nella nostra visione più personale e intuitiva, benché poi non sia sottoponibile a nessuna possibilità di verifica contro fattuale.

«Alterità» e «identità», «presenza» e «non presenza», «occultamento» e «riconoscimento» giocano dunque dei ruoli opposti e nello stesso tempo complementari entro cui la coscienza si muove a livello religioso.

2. L’orizzonte del sacro come parte della coscienza pur essendo «altro» da essa

Il sacro, «l’invisibile che si fa visibile» – per qualche aspetto, l’altro della coscienza stessa – va visto anzitutto come un’alterità irriducibile, e qui allora il discorso può configurarsi anche con le caratteristiche di ciò che è «irrazionale», «indeducibile», «inspiegabile». Rudolph Otto ce l’ha fatto percepire con le sue categorie del «numinoso», del tremendum, della maiestas sullo sfondo della presenza/assenza di sentimenti originari e insondabili nello stesso tempo.

E del resto, il sacro ha due sorgenti di riferimento che sono ambedue lontane dai «concetti chiari» e dalle facili deduzioni: l’etimologia della parola (sacer, sanctus, agios, kadosh, ecc.) indica «ciò che non si può nominare», indica essenzialmente l’«altro». Soltanto attraverso un’impresa continua di manifestazioni, sostituzioni e metaforizzazioni che non hanno limiti, il sacro può essere nominato, esplicitato e indirettamente fatto oggetto di riflessione. Di nuovo, a partire dal punto di vista etimologico e semantico, esso ha un senso indiretto e mai diretto: il sacro esprime ciò che corrisponde alla sua identità dicendo essenzialmente «ciò che non è», dunque la sua «non identità». Infatti l’etimologia ne è una conferma: sacer (latino), o qadosh (ebraico), o haram (arabo) hanno lo stesso significato «obliquo», piegato verso «ciò che non è», verso «ciò che si nasconde». Mentre, per esempio, il profano è più diretto: indica ciò che si trova davanti (pro-) al tempio (fanum) e cioè ciò che sta davanti e fuori dall’ambito del sacro.

Ora, questa peculiarità intrinseca, questa «riservatezza», per cui il sacro si semantizza soltanto in rapporto alla sua differenza e al suo opposto, crea già parte delle difficoltà di cui sopra, per cui la coscienza che lo intenziona non può rimanere se non «ai bordi», in quanto di necessità il sacro è borderline, ai margini della sua stessa possibilità di dire. È sempre difficile infatti comprendere un’esperienza semplicemente attraverso il suo contrario e ciò vale a priori se si tratta di un’esperienza così poco definita come quella di sacro.

L’ausilio delle attuali scienze cognitive, che oggi parlano fin troppo del sacro a partire dall’idea del «contro-intuitivo» (Pascal Boyer), possono certo aiutare notevolmente a fare un’analisi «primitiva» del modo di pensare e di elaborare concetti religiosi proprio della nostra mente, andando alla radice del nostro modo di pensare epistemico, ma lo fanno in chiave «naturalistica» e perciò – a mio avviso – in ultima istanza restano fuori dalla pertinenza più profonda del sacro stesso[2].

L’altra fonte di riferimento del sacro è il «sociale». Ma anche qui l’idea del sacro soggiace a un’ulteriore «ambiguità» (basta ricordare i classici: William Robertson Smith, Henri Hubert, Marcel Mauss ed Émile Durkheim)[3]. Tutto ciò appare di nuovo in un chiaroscuro, in quanto l’idea di sacro crea «dinamiche di inclusione» e di appartenenza alla divinità, ma anche «dinamiche di esclusione» e indica, perciò, anche l’«impuro» storico-religioso: indica l’idea di «tabù» con tutto lo strascico di esclusione che porta con sé nella storia delle religioni (Fowler), ma indica, a pari, ciò che è «consacrato» agli dèi (Károly Kerényi): «dinamica di inclusione» se si tratta di cosa o persona. Dunque anche questa seconda fonte di comprensione del sacro, pur avendo il suo peso, si mantiene sbilanciata su due fronti. E anche a partire da questo versante non si possono trarre delle conclusioni facili.

3. I due opposti orizzonti nell’attuale situazione religiosa

Vediamo ora come tutto ciò venga considerato oggi, ai nostri giorni. Anche qui si riscontra una doppia polarità storica fatta di assenza e presenza del sacro. Oggi, per certi versi, il sacro è scomparso dall’orizzonte e dalla stessa idea di religione cristiana in seguito al «disincanto del mondo» e alla cosiddetta tanto conclamata «razionalità weberiana». Il progetto della modernità formulata nel XVIII secolo dai vari filosofi dell’illuminismo era chiaro e consisteva nello sviluppo di una scienza «oggettiva», capace di imporre una morale universale e autonoma come frutto della ragione e soprattutto questa morale doveva essere capace di portare a vivere attraverso un’organizzazione «razionale» della vita.

Ora, come mettere d’accordo questo progetto – confermato e autenticato anche nel XX secolo dalla visione «weberiana» e «razionale» e realizzato dalla «secolarizzazione» – con la presenza di un’esperienza religiosa e cristiana che non può chiudersi in questa gabbia di isolamento intra-mondano, ma invece è spinta inesorabilmente e sempre di nuovo verso un mondo opposto, «proiettivo», «immaginario», «simbolico», sempre di nuovo consapevole della possibilità di nuove manifestazioni del sacro, possibilità e potenzialità che nascono dalla coscienza stessa mai sopita dell’invisibile?

Si tratta di «teofanie» che non possono rispondere alla ragione, ma rispondono ad altri bisogni: rispondono a un mondo in cui vive ancora una presenza «ingombrante», fatta di presenze sovrannaturali, fatta di una spiritualità, che poco ha di razionale.

Si può dire che, anche a livello sociale viviamo questa ambiguità, per cui ormai siamo abituati a questa «ritirata strategica del sacro» dal nostro mondo e dal nostro orizzonte di senso, ma nello stesso tempo, sappiamo che delle tracce di «esperienze teofaniche» resistono a tutti gli sforzi di cancellazione, in quanto sono il risvolto più proprio della nostra coscienza, che vive pur sempre compenetrata anche di visioni e sogni, di esperienze fuori dal normale, di manifestazioni del divino.

Alcuni teologi ritengono che questa assenza di «manifestazioni del sacro», che appartiene in proprio al cespite desacralizzante della nostra cultura attuale, sia un bene per il cristianesimo: io penso che sia un fattore di decadenza della religione e di misconoscimento dell’esperienza religiosa, anche di quella cristiana. E del resto, come contropartita alle tesi di Max Weber e al cosiddetto «disincanto del mondo», si sono avuti nel passato prossimo e si hanno tuttora dei grandi fenomeni eccezionali di revival dell’esperienza religiosa tramite, ad esempio, altri «fenomeni» di tipo extra-ecclesiale ed estemporanei di manifestazione del sacro.

Il sacro, nel momento in cui non si manifesta più entro il recinto della chiesa, trova luoghi alternativi e si manifesta fuori di essa. In altre parole, quando si nega il sacro alla luce del sole e lo si reprime come dato di coscienza, questo stesso emerge nell’onirico, emerge nei sogni della notte – come diceva Mircea Eliade –, e dunque si manifesta attraverso altri canali, riemergendo più potente di prima. Per esempio, chi può negare che il fenomeno ancora assai recente della New Age[4] non abbia dato luogo a innumerevoli fenomeni di manifestazione e di rivelazione del sacro? Non ultimo il channeling, la comunicazione tra questo mondo e l’altro attraverso i trapassati, attraverso le persone defunte del passato che tramite un/una medium inviano i loro messaggi dall’altro mondo a questo mondo. Ma oltre al channeling vi è, per esempio, la cosiddetta «scrittura automatica», ci sono gli infiniti «messaggi» e la rivelazione attraverso «voci», medium, «angeli», «spiriti» con molti altri fenomeni analoghi, genuini o spuri che siano[5].

Dunque, lo stesso cristianesimo secolarizzato si è trovato «circondato ad extra» da altre espressioni, manifestazioni e teofanie del sacro. Potremmo dire, di conseguenza, che si dà il caso per cui un estremo «secolarizzato» chiama in causa come contropartita l’estremo opposto. Perciò l’orizzonte in cui viviamo in modo secolare e proiettati «lontani dal sacro» è soltanto una parte della visione a cui assistiamo, anche se molti vogliono farci credere che segnerà la fine del sacro stesso.

L’altra metà della storia del sacro, invece, è ancora quella che ci raccontano le religioni «al passato» e «al presente», attraverso vecchie e nuove «teofanie», «ierofanie», «cratofanie», «ontofanie» (Eliade) e attraverso le varie «manifestazioni del divino fatte di “parole”, di “preghiere”, di “dialoghi”, di “appelli”, di “interventi” del sovrannaturale».

Dunque, restiamo essenzialmente dibattuti tra questi due orizzonti di senso che affliggono non soltanto la coscienza, ma anche il mondo in cui viviamo, il mondo secolare e il mondo religioso. Questi due atteggiamenti si confrontano e si scontrano sul sottofondo di una «presenza/assenza», di un invisibile che a volte appare più presente del visibile, e a volte appare «sfuocato» e soltanto presunto.

4.  «Intuizione», «visione», «percezione». Ma come riconoscere il sacro che si manifesta? Per una prima fenomenologia del sacro

Dal punto di vista metodologico, anzitutto occorre dire che la fenomenologia non è il luogo in cui si discuta la verità delle «manifestazioni del sacro» in quanto intuizioni, visioni o percezioni; la fenomenologia soltanto «ne prende atto» e le «valorizza» nella misura in cui sono espressioni condivise e condivisibili dal credente e dalla cerchia dei credenti. Qui, partendo dalla cerchia dei credenti, c’è un primo piccolo criterio di verità che risulta appunto dal riconoscimento dei credenti e dalla «comunità di appartenenza» entro cui nascono quelle date credenze[6]. La fenomenologia, in ogni caso, è consapevole ed è nello stesso tempo «parte in causa» delle critiche alla cosiddetta «oggettività», che oggi nasce da molti fronti epistemologici. Essa è interessata al fatto che siano entrate in crisi non soltanto le «visioni» o le «percezioni», ma gli stessi hard facts (i «fatti duri», il cosiddetto «mito del dato» di Wilfrid Sellars, quei dati che sembravano indiscutibili).

Per parte sua, la fenomenologia fin dalle origini parte da due presupposti fondamentali che sono espressioni anzitutto di «rispetto» e di «riconoscimento» di ciò che si offre alla coscienza.

– Il primo presupposto potrebbe essere espresso da ciò che affermava W. Brede Kristensen e che fu poi ripreso da tutta la cerchia dei fenomenologi classici. Egli sosteneva come primo approccio metodologico un detto che recita così: «Il credente ha sempre ragione». Ciò è importante non perché non siano possibili delle falsificazioni o delle allucinazioni in chiave religiosa, ma per il fatto che anzitutto e prima di tutto occorre mettersi nei panni di «chi crede», bisogna «dare valore alle credenze religiose» in quanto credenze. Dunque va promosso in prima istanza il principio di base di ogni fenomenologia, per cui il credente ha sempre ragione. Tale principio potrebbe essere tradotto anche con lo sforzo di «immedesimazione» (la famosa Einfuehlung) che corrisponde a un criterio di verità non in genere, ma a una verità legata a chi dichiara di «credere sinceramente» a chi esprime toto corde la sua credenza. Del resto, non si può falsificare facilmente la parola «credo» e dunque occorre attenersi a chi afferma di «credere» in modo prioritario, facendo – per così dire – un «voto di fiducia», prima di ogni altra considerazione. Già sottolineava questa asserzione, a livello linguistico, il filosofo Ludwig Wittgenstein, il quale – a partire dai verbi performativi – coglieva un’impossibilità logica di smentire il credente quando asseriva che non si può dire senza contraddirsi: «Io credo falsamente». Se infatti affermo di credere, credo sempre nella «sincerità» del mio sguardo veritativo che nasce dalla mia coscienza.

– Il secondo atto fenomenologico è quello di mettere tra parentesi (fare epoché, lasciare in sospeso il proprio giudizio) le proprie idee, i propri giudizi di valore, i propri presupposti. Anche questo secondo aspetto è assai importante perché noi tutti abbiamo esperienze già maturate, ci portiamo addosso un vestito già carico di giudizi e pregiudizi e siamo già pronti a pronunciarci sul mondo religioso e sulla sua verità, per cui saremmo istintivamente portati e orientati a imporre le nostre visioni e le nostre «pre-comprensioni». Un’astensione dal giudicare e un’osservare attentamente i fenomeni in quanto esperienze che nascono all’interno di una coscienza significa partecipare a un altro modo di concepire la verità: una visione più ampia e più impegnativa.

A queste osservazioni brevi e quasi a forma di elenco, possiamo aggiungerne una finale: diremmo che, d’altra parte, nel contesto epistemologico generale, bisogna saper «distinguere». Distinguere tra una struttura che fa capo alla «credenza» e alla fede, da una struttura che fa capo alla «comunicazione» così come occorrerebbe distinguere un’ulteriore struttura che fa capo al «criterio di verità». I diversi cespiti conoscitivi non vanno confusi e per certi aspetti hanno una loro «autonomia epistemologica» che li esime da dover rendere conto a un ulteriore criterio di veridicità. E proprio a questo proposito va osservato che la verità religiosa è anzitutto una «struttura di credenze» e non è interessata direttamente alla comunicazione.

Sicuramente molti si domanderanno se si può saltare a piè pari il criterio di «verità» dei fenomeni di manifestazione del sacro. Ma che cosa, di fatto, si può osservare in una fenomenologia del sacro, la quale dice espressamente di non poter cogliere il sovrannaturale in quanto tale (Gerardus van der Leeuw)? Si può rispondere adeguatamente osservando che si coglie ciò che si dà alla coscienza e cioè il modo in cui la coscienza «intenziona» la realtà sacra che le è data come sporgenza, come eccedenza e come dono. La fenomenologia in questo senso – come sosteneva ancora van der Leeuw – «non sa nulla della «rivelazione», ma può comprendere l’intero della vita religiosa a partire dalle intenzionalità della coscienza, ambito che si manifesta, sotto certi aspetti vicino alla rivelazione, come esperienza e manifestazione del sacro. R. Otto a tale proposito parla di Innere Offenbarung («rivelazione interna»).

4.1. Alcune modalità di apparizione del sacro

Per altro, una prima fenomenologia del sacro ci suggerisce che nell’intenzionalità del riferimento sono iscritte «alcune modalità» sotto cui il sacro deve apparire per essere riconoscibile e per essere riconosciuto tale. E infatti il sacro, nella sua manifestazione, dovrà seguire le «tracce» e le «connotazioni» che gli sono peculiari e la funzione che gli è propria e che scaturisce dalla stessa etimologia della parola. Perciò, quando si manifesta, il sacro ha bisogno di manifestarsi come «altro», deve staccare con il normale (profano) e deve dare luogo a epifanie o teofanie «conturbanti» per essere riconoscibile[7].

Così, mentre, per un verso, a livello di idea e di fenomeno intenzionato dalla coscienza, il suo essere un concetto primitivo potrà trovare espressione soltanto in un’idea profonda «pre-noetica», che dovrà presentarsi nella sua ambiguità originaria e sarà perciò francamente «indeducibile»; per altro verso, dovendo essere il sacro legato a qualcosa di «straordinario», «insolito», «nuovo», «inaudito» e legato a qualcosa come il «mana» (forza strana riconosciuta dai primitivi) dovrà specificare gli oggetti in cui si incontra, rendendoli assolutamente «particolari».

Su questo sfondo la manifestazione del sacro può dar luogo a molte ierofanie descrittive di ambiti della natura. Importante è che questi ambiti naturali siano «pieni di potenza», siano fenomeni «eccedenti», in qualche modo. Dunque le possibilità ierofaniche sono pressoché infinite. E qui sarebbe importante creare una «classificazione», ma per l’economia di questo lavoro, mi è appena possibile fare qualche accenno.

– Il sacro si manifesta, anzitutto, attraverso il riferimento al «cielo» che è l’«altro», il «trascendente», l’«eccedente» in assoluto. Perciò le prime ierofanie sono le ierofanie «celesti» e «atmosferiche». Dio «si rivela in cielo», che è la sua sede, il suo trono: Varuna, Mithra, Zeus, Odino, Yhwh, ecc., sono dèi del cielo. In Africa le manifestazioni «celesti» di Dio sono certamente le più caratteristiche. Per esempio, presso i Bambara della Guinea il Dio del cielo conserva un carattere naturalistico per cui si dice: «Dio si fece nero», oppure: «Dio tuona». Il nome per dire Dio è «sa» che non significa altro che «cielo»[8]. Allo stesso modo il Dio degli Ashanti del Ghana si chiama «Nyama», oppure «Onyame» e abita in cielo; il Dio degli Ewe e dei Fon del golfo della Guinea comprendente il Bénin, il Togo e il Ghana, si chiama «Mawu», ma qualche volta si chiama anche «Dzinghe» che significa direttamente «cielo». Secondo il proverbio degli Ewe non si può prescindere o dimenticare Dio in quanto «dovunque c’è il cielo, c’è Dio [Mawu] perché il cielo stesso è Dio». In Nigeria, lo stesso Dio del cielo si chiama «Obassi», mentre presso i Nupe della Nigeria si chiama «Soko», dove Soko indica semplicemente il cielo e dunque non esiste alcuna distinzione tra Dio e cielo. Nel contesto dei Nupe si dice che: «Egli sta davanti e sta dietro ogni creatura»[9]. Presso i Masai del Kenya si trovano forme diverse di fede nel Dio del cielo chiamato «Ngai». E si potrebbe continuare all’infinito su questo rapporto: Dio/cielo.

– In secondo luogo, ci sono «ierofanie elementari» che fanno capo alla natura sempre considerata nel suo elemento «eccezionale». Così, ad esempio, ci troviamo in presenza del sacro nelle «rocce», nelle «pietre», ma poi in particolare nella «montagna», come per altro verso nell’«albero cosmico». Si tratta di punti focali che fanno pensare all’immagine del centro messa bene in evidenza da Eliade.

– Ci sono, in terzo luogo, ierofanie «irrompenti» e «travolgenti», che avvengono attraverso una particolare forza.

– Così ci possono essere «cratofanie folgoranti»: Paolo sulla via di Damasco è stato «folgorato» da una luce divina.

4.2.  Il passato delle religioni è fatto di un dialogo tra l’uomo e il sovrannaturale

Ma non ci sono soltanto manifestazioni del sacro che restano «senza risposta» perché legate agli oggetti della natura o ai fenomeni naturali, ci sono anche «dialoghi», «comunicazioni», «colloqui», dove il sacro o il divino appare come un «interlocutore» con cui si può parlare, esprimersi, creare una storia comune.

4.2.1. Un dialogo che continua nella storia tramite profeti, veggenti, sciamani e la natura animata

La storia delle religioni è la storia delle manifestazioni del divino, nelle sue varie forme, nei suoi innumerevoli volti, nelle sue «incarnazioni» e nelle sue avatāra. E dunque ogni descrizione storica comporta un incontro con il sovrannaturale diretto o indiretto che sia, creduto o soltanto presunto.

Nelle religioni diventano di estrema importanza, anzitutto, le Scritture sacre che sono ispirate dalla divinità stessa e che sono la voce stessa del divino. Le Scritture – la Bibbia, i Veda, il Corano, ecc. – costituiscono un mondo a sé: sono la testimonianza viva della «rivelazione» della divinità. Ma le sacre Scritture, nonostante tutta la loro importanza, sono testimonianze storiche, sono parole e idee consegnate alla storia, mentre le manifestazioni del sacro avvengono sempre lungo tutto il tempo.

Dal punto di vista storico e dei personaggi che hanno fatto la storia della rivelazione sono importanti: i «veggenti» (rsi) che, per esempio, nei testi vedici, nei cosiddetti RgVeda – 1018 inni rivolti agli dèi – cantano le lodi della divinità, «vedono il divino» (rsi significa «vedere») e descrivono le sue varie manifestazioni.

Altrettanto importanti sono i «profeti» biblici, che hanno la vocazione da parte di Dio, così come altri profeti di altre religioni, per esempio, Zarathustra, che – in uno stato estatico – riceve delle rivelazioni da Ahura Mazda. Ma la vocazione a profeta di Yhwh da parte di Mosè è tra le più interessanti nella storia delle religioni (Es 3,4 ss). Nell’ambito delle religioni monoteiste, hanno grande rilevanza anche quella di Muhammad per opera dell’angelo Gabriele e anche quella di Mani. Ma abbiamo profeti in pressoché tutte le religioni: in Mesopotamia c’erano diverse categorie di sacerdoti profeti che interpretavano gli omina; in Israele furono i Leviti a interpretare gli urim e tummim , in Grecia erano i sacerdoti di Apollo. In tutte le religioni essi sono i portavoce del divino.

Ma Dio si rivela anche nella voce dei «patriarchi», che fanno la storia del popolo d’Israele, così come si manifesta anche nei «sogni» dei chiamati da Dio. La manifestazione del sacro nei sogni fa venire alla mente il mondo sciamanico. Anche gli «sciamani» sono dei visionari del divino: ritualmente e quasi in un sonno profondo comunicano con l’aldilà e dunque creano il contatto tra il visibile e l’invisibile. Essi infatti sono testimoni delle prime trances religiose dell’umanità.

Ma il sacro si manifesta perfino negli animali che diventano spesso protagonisti di grandi teofanie. Ad esempio, la voce di Dio si manifesta nell’«asina di Balaam» (Nm 22). Nel racconto biblico l’asina è la sola che vede l’angelo e che dunque può mettere in guardia il suo padrone in modo che ascolti la voce del Signore che gli parla per mezzo dell’angelo e della sua propria asina. Se volessimo dare solo uno sguardo anche molto superficiale alla storia delle religioni dell’antico Egitto o dell’India troveremmo che le divinità in molte religioni si manifestano spesso anche attraverso gli animali. In Egitto il dio Horus è un falcone i cui occhi sono il sole e la luna; il dio Thoth si manifesta sotto forma di babbuino o anche di ibis; Apis è spesso identificato con il toro, la famosa dea Hathor appare nei papiri e anche nelle statue dell’epoca con l’aspetto di vacca. Il significato di queste identificazioni è difficile da decifrare, ma – come  osserva Henri Frankfort – tali rappresentazioni potrebbero indicare semplicemente che, per esempio, la dea Hathor si manifesta nella vacca[10]. Nell’India antica non è diverso. Si sa che le grandi avatāra (incarnazioni, manifestazioni) del dio Vishnu sono numerose. E Vishnu si manifesta sì nelle divinità di Krishna e di Rama, ma si manifesta anche sotto forma di pesce (matsya), così come sotto la forma di una tartaruga (kurma) o anche, ad esempio, sotto forma di un cinghiale (varaha).

4.2.2. Il «luogo» della teofania

Abbiamo osservato che il sacro si manifesta, per esempio, nelle «pietre», nella «forza occulta» del mana (Robert H. Codrington, Robert R. Marett). Ora dobbiamo osservare anche che un punto di grande energia sta nell’«incrocio dei fiumi» (thirta). Per il mondo indù l’incrocio dei fiumi è il luogo dove vi è un’energia del tutto particolare. Si tratta di un’energia potente simile a quella che vi è in «alto, sulle cime delle montagne», punto di congiunzione tra cielo e terra.

Occorre, quindi, approfondire alquanto il significato del «luogo delle apparizioni» del sacro, perché il luogo assume una dimensione del tutto particolare. Il sacro, infatti, non può apparire dappertutto: ci sono dei luoghi che sono «deputati» all’apparizione del sacro e del divino. Il significato dei luoghi sacri fu sottolineato soprattutto nell’opera di M. Eliade[11] e di G. van der Leeuw[12]. Secondo una fenomenologia ormai collaudata e un’osservazione già fatta ma su cui è bene ritornare, il sacro si manifesta in ogni luogo che sia in qualche modo «eccezionale», che sia «eccedente», che comporti qualche particolarità, che sia espressione di «forza» e di «potenza» (van der Leeuw), che esprima in qualche modo la congiunzione del cielo e della terra. Delfi per esempio, è un luogo che ha questa caratteristiche. È là dove c’era il famoso oracolo. Delfi veniva considerata un omphalos ges, un «ombelico della terra» per la sua centralità. E a tale proposito si raccontava un famoso mito per avvalorare il significato di quel luogo. Si narrava, infatti, che Zeus, dai confini del mondo, aveva lasciato libere due aquile. Queste si alzarono in volo e volarono lontano nell’aria di qua e di là, ma alla fine si incontrarono e caddero ambedue nello stesso luogo e cioè dove era stato costruito il famoso tempio dell’oracolo: da allora una pietra in terra indica che quel luogo è l’ombelico della terra. Perciò diventa il centro del mondo a cui fa capo tutta la storia delle religioni intenta a scoprire ciò che dà sfarzo e orientamento, ciò che alla fine significa dare senso alla presenza del divino in un luogo.

Dalla considerazione del centro come punto strategico per il divino, nascono alcune formulazioni storico-religiose che sono diventate classiche:

– il monte sacro – dove il cielo e la terra si incontrano – si trovano nel punto centrale del mondo;

– ogni tempio o palazzo nell’antichità così come ogni città sacra o residenza regale, è un «monte sacro» e viene considerato centro del mondo;

– la città santa è pure il centro del mondo: l’axis mundi e diventa per ciò stesso il punto di incontro del cielo, della terra e degli inferi.

Per esempio, nella letteratura accadica ci sono elogi rivolti alle città, tra cui famosa è la lode alla città di Arba’ilu (antichissima città mesopotamica, ora sotto l’Iraq). Era una città famosa sia per il suo oracolo sia per le feste che si celebravano in onore della dea Ishtar. Un testo trovato ad Assur porta il frammento di un inno molto bello dedicato alla città per celebrare la sua grandezza «sacra»:

Arba’ilu, Arba’ilu
Un cielo senza confronti: Arba’ilu
Città degli inni di gioia, Arba’ilu
Città delle fortezze: Arba’ilu
Città dalle case festose: Arba’ilu
Isthar vi abita in tutto il suo splendore
Tempio sacro di Arba’ilu
nobile casa degli dèi: Arba’ilu[13].

C’è dunque un circolo di corrispondenze e di conferme che indica un luogo come luogo sacro a partire dalla sua «eccedenza», dalla sua carica numinosa, dal riconoscimento della sua «centralità», oppure anche semplicemente a partire dalla sua particolare posizione o funzionalità capace di congiungere cielo e terra.

Se si confrontano poi i luoghi della manifestazione del sacro con le indicazioni di M. Eliade e con i luoghi della letteratura tradizionale giudaica, si scopre che, per esempio, Gerusalemme appare il luogo ideale e primo di ogni manifestazione secondo tutte le indicazioni di spazio e tempo che illustrano il luogo della rivelazione alle origini e che ora nello stesso tempo è «centro della santità». Si parla così di Gerusalemme come di altri luoghi sacri, come axis mundi, «ombelico del mondo», montagna sacra per eccellenza, il luogo in cui nasce l’«albero cosmico»: tutti i criteri confluiscono su alcuni luoghi sacri centrali e carichi di una forza particolare, così come avviene per un «mandala sacro» verso cui tutto converge, come avviene per una Zikkurat mesopotamica, alta fino al cielo, come avviene per il Maga iranico, che è luogo unico nel suo essere isolato e centrale e come ciò che rappresenta la Kaaba alla Mecca, che è un «pezzo di cielo sulla terra».

Ma forse, prima dei grandi templi e monumenti, occorre affermare che la città stessa alle origini era una «condensazione del sacro» e una sua manifestazione.

4.2.3. Il «tempo» della manifestazione del sacro

Poiché il sacro, a livello fisico, si pone ai confini tra il kosmos e il caos, e proprio in questa contrapposizione gioca a sottrarre caos al mondo per portare kosmos, ordine, e indirizzare con ciò stesso sempre verso un «centro» e un «asse di orientamento», così allo stesso modo il sacro nel suo manifestarsi, «orienta» e predefinisce il tempo, in modo che anche il tempo non sia più il luogo della perdizione, dello smarrimento, della derelizione.

Il «giorno», la «notte», la «settimana», l’anno sono elementi fondamentali del tempo sacro. Per non lasciarli in balia del caso essi vengono «ritmati culturalmente». Il culto, il rito, il calendario diventano essenziali per dare ordine al tempo. E tutto ciò è indispensabile per far apparire il tempo stesso come «epifanico». Ma il tempo più importante e più – potremmo dire – «rivelativo del sacro» è il tempo delle origini: è l’illud tempus. Secondo Eliade, il sacro è riconducibile all’originario, mentre la storia è la progressiva perdita delle dimensioni sacre. Allo stesso modo, il rito è fondamentale in quanto recupera la dimensione originaria, ripropone quello «stato ontologico» in cui la realtà è satura e noi siamo compartecipi di una realtà totale, originaria, archetipica, che ci dà la pienezza della vita, che ci dà la «salvezza», intesa come «integrità» secondo la stessa etimologia della parola. La storia, invece, è una manifestazione «minore» – se così si può dire – del sacro, in quanto è qualcosa di passeggero, instabile, è una realtà diveniente e destinata all’oblio. Va divisa per epoche più o meno rivelative del sacro come, per esempio, nel mondo indù, dove viene suddivisa secondo i quattro grandi yuga che scandiscono il significato religioso della storia[14].

Allo stesso modo ogni manifestazione e «rivelazione del sacro» ci porterà indietro all’originario, ci porterà fuori dalla storia e darà un orientamento definitivo alla percezione del tempo come in illo tempore.

Tutto ciò avviene secondo un modello collaudato, per cui dove si manifesta il sacro «si fa ordine» e si crea un momento di «stabilità ontologica» irripetibile. Rifugiarsi là dove si manifesta il sacro significa proteggere la propria vita, essere immuni dai pericoli, «partecipare», in una parola, all’ontologico del sacro. Ora, il rito – secondo ancora Eliade – ha per definizione questa possibilità di farci ritornare all’origine.

4.2.4. I «modi» della teofania/ierofania

I modi in cui il sacro o il divino si manifestano sono i più «impensati» e «imprevisti»: sono molto spesso modalità «estemporanee», «enigmatiche», «indecifrabili». Tutto ciò avviene per gli stessi motivi per cui il sacro è «indeducibile» e comporta momenti «irrazionali». Non essendo un’espressione umana, ma fuori dall’umano, può essere colto soltanto attraverso forme percettive o intuitive differenti e «altre» da quelle normali. Non essendo un’espressione naturale, pur servendosi di fenomeni naturali, come le «pietre», le «rocce», le «nuvole», la «montagna», l’apparizione sarà «strana»: avverrà in una pietra «speciale«», in una nuvola «eccezionale», in una montagna, come l’Olimpo, che è del tutto fuori dalla norma. La manifestazione del sacro, inoltre, potrà essere vista da alcuni e non da altri, potrà emanare una «luce accecante», così come potrà provocare «sorpresa», «timore», «paura», «senso di angoscia» o anche all’opposto un grande senso di «pace» e di «felicità».

Poiché anche qui la fenomenologia dei modi di apparizione del sacro sono indefiniti, vorrei soltanto sottolineare alcune tra le modalità più ricorrenti e più specifiche.

a) Come un lampo. Le stesse ierofanie di Yhwh compaiono legate ai grandi fenomeni atmosferici. Yhwh manifesta la sua potenza nell’uragano; il tuono è la sua voce e il fulmine viene chiamato il fuoco di Yhwh o le sue frecce. Ma soprattutto Yhwh si annuncia spesso con «tuoni, fulmini e un fuoco denso» (Es 19,16). Quando in particolare consegna le leggi a Mosè: «La montagna del Sinai era tutta in fumo perché l’Eterno vi era disceso in mezzo al fuoco» (Es 19,15). Ma anche quando, ad esempio, Yhwh avvertì Elia che si avvicinava, lo fece attraverso

un grande uragano, da lacerare i monti e spaccare le rocce: il Signore però non era nell’uragano. Dopo la tempesta venne un terremoto: il Signore non era in quel terremoto. E dopo il terremoto un fuoco: il Signore non era neppure in quel fuoco, e dopo il fuoco un mormorio dolce e leggero (1Re 19,11 ss).

Ma altrettanto conturbanti sono le epifanie jahviste del «roveto ardente», della «colonna di fuoco» e delle nuvole che guidano gli israeliti nel deserto. L’apparizione del divino comporta sempre qualcosa di straordinario in quanto è normalmente «invisibile». Ad esempio, la dea Demetra – nell’inno a Demetra di Omero – all’inizio non viene riconosciuta come dèa, poi però d’improvviso vi è un’illuminazione che rischiara e fa capire in maniera istantanea. Allo stesso modo il dio Amun nell’antico Egitto rimane semplicemente nascosto, con la nascita del figlio però viene alla luce la sua divinità e si manifesta in tutto il suo splendore.
In questa apparizione del divino l’elemento di spicco resta sempre il «lampo di luce» che illumina, come avviene in un temporale. Dio si manifesta sotto forma di una «luce che acceca». Non si può guardare direttamente il sole per più di un secondo perché si resta accecati, così avviene con l’apparizione del divino: la luce o il tuono possono essere mortali[15].

b) Pura felicità. Molti studiosi di fenomenologia introducono a proposito della visione del divino la caratteristica del pure bliss: della felicità pura. Questa è una costante che è già nella concezione del sacro di R. Otto, quando parla del fascinans nell’idea del divino. Il fascinans è ciò che rende felici. Abitare nella casa del Signore «rende felici»: sentirsi nelle vicinanze dell’Altissimo può intimorire, può creare sentimenti di sorpresa e di ansia, ma poi alla fine crea una grande e insostituibile pace e beatitudine.
Chi vive la presenza del divino alla fine fa un’esperienza mistica con tutte le sue caratteristiche, che sono legate all’«indicibile grandezza» e «bellezza» del divino a cui si partecipa. Tutti i grandi inni religiosi, poesie alla divinità, tutti i sentimenti che nascono al contatto del sacro sono sentimenti altissimi che ispirano bellezza e felicità. Si potrebbe parlare a lungo della bhakti indù – religione classica popolare – che ispira friedvolle Stimmung (una sensazione di pace) e Süsse (soavità), come scrive in un saggio sull’induismo Annette Wilke[16].
Ha visto bene R. Otto quando ha sottolineato che nella mistica domina l’aspetto fascinans, ma forse non ha sottolineato a sufficienza che nella mistica non c’è soltanto lo «stupore», ma anche la «percezione della bellezza e della felicità», quasi come fatti fisici legati al corpo in quanto le categorie dello spirito non sono più separabili da quelle del corpo, e cioè dalla percezione e dalla sensibilità.

4.2.5.  Modificazioni antropologiche che subentrano: tra sogno, visione, trance ed estasi

Per ultimo, voglio mettere in conto alcune modificazioni antropologiche che subentrano in presenza del sacro. Infatti, in presenza del sacro, cambiano tutti i paradigmi di azione e di comportamento dell’uomo. Ci limiteremo qui a descrivere i momenti che scatenano la trance con le modificazioni corporee che sono controllabili, tenendo conto dei contesti più svariati in cui tali fenomeni avvengono.

È evidente, del resto, che nella descrizione della trance non si può partire dalla mente e dalla coscienza che sono fatti interni e soggettivi, ma solo dai fenomeni rilevabili in cui si vede la «trasformazione» della coscienza. Per esempio, il neuroscienziato Antonio Damasio osserva giustamente che la coscienza è una conoscenza che si costruisce su due fatti fondamentali: anzitutto, sul fatto che l’organismo sia coinvolto in rapporto a un qualche oggetto e, in secondo luogo, sul fatto che l’oggetto con cui si entra in relazione comporti un cambiamento nell’organismo[17].

Ora poiché è molto difficile sapere e descrivere il sacro con il quale la coscienza entra in contatto, mentre è molto più semplice riconoscere i cambiamenti che la manifestazione del sacro provoca nell’organismo, occorre partire da quest’ultimo aspetto per poter dire qualcosa di significativo.

Osservando attentamente il fenomeno della comparsa del divino, la trance religiosa può essere divisa in un chiaro momento «iniziale», un certo spazio «intermedio» di durata e, da ultimo, si può vedere anche il momento in cui cessa lo stato «alterato». Distinguiamo le tre fasi dell’evento: l’inizio, la fase vera e propria e la fine della trance.

a) L’inizio della trance. Il contesto può essere molto diversificato. Di solito si parte dal rituale, nelle cosiddette trances «telestiche» (il rito sciamanico è il classico, ma è sufficiente anche una preghiera come la «recita del rosario»), in quanto per la maggior parte dei casi è il rituale che pilota la partenza della trance e che porta il fedele verso la contemplazione dell’apparizione del divino. Poi più specificatamente, gli elementi che possono dare inizio a questi fenomeni di stati iniziali di trance sono i più diversi. Si può trattare di un «canto», di un «suono del tamburo», di un «movimento di danza», delle «litanie della Madonna», di un momento di «silenzio profondo» o semplicemente di un «digiuno preparatorio». Si può essere presi anche da momenti occasionali come da una forma intensa di preghiera, ma anche si può essere suggestionati dalla semplice luce delle candele o dallo scorrere dell’acqua. Nel contesto anche «profumi» e «odori» – come, ad esempio, l’incenso nelle forme rituali – possono avere una particolare efficacia. Ma anche la semplice «attesa» dell’evento rituale; tale momento può condurre a una forte concentrazione che si scarica sui sensi.
Una concentrazione totale negli stati cosiddetti «trofotropici» (cioè: legati alla meditazione) e la danza euforica negli stati «ergotropici» (cioè: stati dinamici), sembrano essere il presupposto indispensabile per l’esperienza della trance. Certo, per la trance occorre vivere lo stato di flusso (flow) dove scompaiono tutte le preoccupazioni quotidiane e si diventa «assenti» al mondo circostante, mentre si presta un’intensa attenzione al realizzarsi del rito o all’atto di preghiera in tutta la sua forza.
Quando incominciano i primi sintomi di trance, si inizia a «respirare più profondamente», molti cominciano a «sudare freddo» o a diventare «rossi in viso», nello stesso tempo si nota anche che la persona viene presa da «tremolii del corpo». I muscoli di solito «si irrigidiscono», specialmente il collo resta come «inchiodato», mentre la voce e anche la vocalizzazione – quando continuano – diventano più melodiose, ritmiche. Quando poi incomincia anche il fenomeno dell’«alterazione dello stato di coscienza», si esperimentano fatti molto diversi. Secondo quello che scrive una donna che aveva vissuto in prima persona il fenomeno della trance – faccio riferimento alla descrizione di Felicitas D. Goodman – si assiste inizialmente come a «una parete che si divide e lascia uno spazio vuoto» per cui si ha grande paura. Poi d’improvviso si è dall’altra parte del muro e tutto diventa diverso[18].

b) Durante la fase di trance si osservano fenomeni che corrispondono ai diversi cambiamenti del corpo: il viso diventa «pallido», «madido di sudore», il «corpo trema», si fanno movimenti bruschi, si prova un «senso di impotenza» e di «rigidità», si esperimenta una specie di catatonia. Secondo le osservazioni di Gilbert Rouget, i fenomeni non sono molto diversi: nella fase di trance per l’autore si può notare che la persona trema, è percorsa da brividi, può svenire, cade a terra, sbadiglia, soffre di convulsioni e soffre di disturbi termici: come avere caldo quando fa freddo, avere freddo quando fa caldo, essere agitato da tic, ecc. La persona cui il divino si manifesta o di cui il sacro si impossessa è come immersa in una «sorta di smarrimento» ed è «incapace di autocontrollo»[19].
Si è sottoposti generalmente a un’eccitazione di grande intensità, che impedisce qualsiasi altro movimento. A questo stadio i fenomeni di trance si diversificano a seconda dell’appartenenza alla propria cultura e religione. Un cristiano vedrà la Madonna, bella, vestita di bianco, come a pari un seguace sufi racconterà, ad esempio, di vedere un uccello d’oro in cielo e di vedere i demoni sulla terra. Qui – come si sa dalla storia della mistica – ci sono due matrici di pensiero molto diverse. Una sostiene che alla fine i fenomeni mistici non hanno appartenenza e non fanno capo a una visione religiosa particolare legata a un mondo culturale proprio. Questi sono i cosiddetti «perennialisti» (R. Otto, Aldous Huxley[20], William James, Walter Stace[21]). Gli altri, i «costruttivisti», sostengono invece che dietro a ogni visione religiosa mistica c’è la propria e particolare matrice religiosa e la forma della cultura (Steven Katz)[22].

c) La fine della trance. La trance finisce a un preciso segnale. Quando, ad esempio, cessa il suono del tamburo o scompare una luce, o si rinviene da una specie di svenimento o catatonia. A volte è difficile capire il vero momento della fine del «manifestarsi del divino», o capire quando cessa il momento proprio dello stato alterato di coscienza. A questo scopo possono essere molto di aiuto quelli che vi partecipano, in genere gli «osservatori».

5.  Conclusione. Anche oggi c’è un «rumore di angeli» sulla terra

Ho tracciato le coordinate fenomenologiche secondo le quali si muove il sacro nelle teofanie e nelle rivelazioni del divino. È soltanto la stesura di un profilo che la fenomenologia ci ha insegnato nel corso degli ultimi decenni, poiché essa studia da tempo questi fenomeni intendendo – per quanto possibile – seguire le «tracce del sacro».

In questa finale, prendo a prestito la famosa affermazione di Peter L. Berger risalente al 1970[23], dove egli, in un libretto importante alla ricerca dei segnali del sacro, affermava che nonostante la secolarizzazione vi era ancora «a rumor of Angels».

Naturalmente, le voci, i messaggi, le apparizioni della Madonna, le lacrime della Madonna, i miracoli e le estasi, se vi erano anche negli anni Settanta del secolo scorso, ci sono ancora oggi e in forma – credo – più rilevante e più «rumorosa» di allora. D’altro canto, poiché il sacro si manifesta e si nasconde o meglio vive sempre in un «chiaroscuro» di cui sopra abbiamo parlato, ogni documentazione può essere fuorviante e ogni tentativo di «captare» visivamente, spazialmente o fisicamente la sua presenza può andare «fuori bersaglio».

Occorre fermarsi alle «tracce» del sacro, poi dopo devono intervenire altri fattori: la «credenza», la «fede», la «partecipazione», l’«empatia» e soprattutto il «dono della grazia» che scopre, documenta attesta e vivifica il tutto.

Aldo Natale Terrin

ordinario di Fenomenologia della religione e di Scienza delle religioni
presso l’Istituto di Liturgia Pastorale – Padova

Articolo tratto dalla Rivista “Credere oggi” 198 6/13



[1] Cf. E. Husserl, Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano 1995, in particolare il cap. III, §§ 33-46.

[2] Si veda emblematicamente P. Boyer, E l’uomo creò gli dèi. Come spiegare la religione, Odoya, Bologna 2010.

[3] Vedi globalmente G. Agamben, L’ambivalenza del sacro, in Id., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 20052, 83 ss.

[4] Cf. A.N. Terrin, New Age. La religiosità del postmoderno, EDB, Bologna 20032.

[5] Cf. anche A.N. Terrin, Gli angeli nel mondo contemporaneo, in G. Quarenghi (ed.), Angeli: presenza di Dio tra cielo e terra, Morcelliana, Brescia 2012, 237-267.

[6] Si veda la teoria fenomenologica di nuovo indirizzo di J. Waardenburg, Reflections on the Study of Religion: Including an Essay on the Work of Gerardus van der Leeuw, Mouton,The Hague 1978.

[7] Cf. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1972, 8, 29 ss per la struttura delle ierofanie.

[8] Cf. G. Widengren, Fenomenologia della religione, EDB, Bologna 1986, 123-127.

[9] Cf. S.F. Nadel, Nupe Religion, Routledge & Kegan,London 1954, 10 ss.

[10] Cf. H. Frankfort, La religione dell’antico Egitto, Boringhieri, Torino 1991, 11.

[11] Cf. in particolare M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 19722.

[12] Cf. G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1960. Si veda anche Widengren, Fenomenologia della religione.

[13] Cf. D. Pezzoli-Olgiati, Stadt als heiliger Raum? Drei mesopotamische Beispiele, in A. Michael – D. Pezzoli-Olgiati – F. Stolz (edd.), Noch eine Chance für die Religionsphaenomenologie?, Peter Lang, Bern 2001, 47-66, qui 50.

[14] Yuga significa «era» o «periodo» della storia del mondo, e per la religione induista sono nell’ordine l’età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro (ndr).

[15] Per l’insieme vedi F. Stolz, Der Schreckensglanz der Götter, in Michael – Pezzoli-Olgiati – Stolz (edd.), Noch eine Chance, 67-93.

[16] Cf. A. Wilke, «Stimmungen» und «Zustände». Indische Ästhetik und Gefühlsreligiosität, in Michael – Pezzoli-Olgiati – Stolz (edd.), Noch eine Chance, 103- 126.

[17] Cf. A. Damasio, The Feeling of What Happens: Body, Emotion and the Making of Consciousness, Vintage, London 2000, 20 cit. in A. Geertz, Cognitive Approaches to the Study of Religion, in P. Antes – A.W. Geertz – R.R. Warne (edd.), New Approaches to the Study of Religion, vol. II, De Gruyter, Berlin 2004, 347-399, qui 365.

[18] Cf. F.D. Goodman, Die andere Wirklichkeit. Ueber das Religioese in den Kulturen der Welt, Trickster, München 1994, 48 ss.

[19] Cf. G. Rouget, Musica e trance, Einaudi, Torino 1998, 25 ss; anche M. Burger, Das Unsabare im Spiegel der Koerpersprache, in Michael – Pezzoli-Olgiati – Stolz (edd.), Noch eine Chance, 127-149, qui 135.

[20] Cf. A. Huxley, The Perennial Philosophy, Harper & Row, London 1944 (tr. it., La filosofia perenne, Adelphi, Milano 1995).

[21] W. Stace, Mysticism and Philosophy, Jeremy P. Tarcher Inc.,London 1960.

[22] Si veda, ad es., S. Katz, Diversity and the Study of Mysticism, in S. Jakelic – L. Pearson (edd.), The Future of the Study of Religion, Brill, Leiden 2004, 189-210.

[23] Cf. P.L. Berger, A rumor of Angels. Modern society and the rediscovery of the Supernatural, Anchor Books, New York 1970 (ed. ampliata 1990) (tr. it., Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea, Il Mulino, Bologna 1970 [nuova ed. 1995]).

 

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