Teofanie: dall’Antico Testamento al Risorto

Sommario

La fenomenologia della «visione di Dio» nell’Antico e nel Nuovo Testamento è assai ricca e istruttiva. L’articolo ne ripercorre il lessico, analizzando i diversi verbi che esprimono il «vedere», per poi passare in rassegna le grandi teofanie bibliche, in particolare nell’esodo, nei profeti e nel salterio, per esaminare poi il tema nei Vangeli e nell’Apocalisse. Ne emerge una dialettica tra rivelazione e nascondimento, tra un Dio che nessuno ha visto, eppure si rivela nella persona del Figlio. Ma il vedere fisico potrebbe ingannare oppure rimane cieco davanti all’irrompere misterioso del divino: per questo il vedere biblico richiede anche l’ascolto e il dialogo, cioè l’esperienza di un rapporto personale tra l’io umano e il tu divino.

1. Cultura uditiva e cultura visiva

La rivelazione biblica si colloca all’intersezione fra ebraismo ed ellenismo. Si sono spesso enfatizzate le distanze fra i due mondi culturali, fondati l’uno sull’ascolto e l’altro sulla visione. La netta separazione fra i due Testamenti, poi, ha contrapposto due modalità di rivelazione: il Dio dell’Antico Testamento rimane un Dio invisibile, la cui visibilità è rintracciabile nella carne umana del Verbo. Il dato biblico induce a essere più prudenti, sia perché nell’Antico Testamento ebraico, ad esempio, il verbo «vedere» è molto più frequente del verbo «ascoltare», sia perché gli agiografi del Nuovo Testamento, che pure scrivono in greco, pensano piuttosto da semiti. Un’indagine sulla fenomenologia del tema, soprattutto nell’Antico Testamento, è necessaria prima di descriverne l’uso nelle singole sezioni del canone ebraico e di quello cristiano[1].

2. Fenomenologia della visione

Nella Bibbia ebraica le radici più utilizzate sono r’h e hzh. La prima, più comune, è anche la più generica dal punto di vista semantico – sebbene la coniugazione nifal («farsi vedere») indichi l’«apparire» di Dio e dei suoi messaggeri –, mentre la seconda (espressione tecnica per la visione profetica) aggiunge una sfumatura contemplativa. La radice nbt, nella forma causativa, sottolinea l’intenzionalità del «guardare» e poco si addice, pertanto, alla visione divina (ma cf. Nm 12,8; Sal 34,6). La lingua ebraica conosce altre modalità per esprimere l’atto visivo, quali il ricorso a locuzioni particolari («alzare gli occhi», generalmente connessa a qualche verbo di percezione visiva) o alla particella wehinnêh, che accentua l’effetto di sorpresa e di imprevedibilità della visione (equivalente del greco idoú, forma imperativa di un verbo di percezione visiva).

Nel greco del Nuovo Testamento (e in particolare nel vangelo giovanneo) il campo semantico della visione è ancora più ricco, e si concentra soprattutto intorno a quattro verbi, talvolta utilizzati nello stesso contesto. Il verbo blépo è il più comune, indicando spesso la mera percezione fisica di un oggetto (diversa è la portata semantica dei composti di blépo), mentre theoréo si sofferma sull’intensità e insistenza dello sguardo. Oráo, molto frequente in Giovanni, denota lo sguardo intuitivo e interiore, una visione in profondità, significato ripreso e ulteriormente rimarcato da theáomai.

Soprattutto nell’Antico Testamento, la percezione visiva non è presentata come atto a sé stante, ma in un dinamismo che incontra il soggetto nella sua realtà e ne coinvolge tutte le facoltà, da quelle intellettive a quelle affettive. Né si può dire che il processo di percezione si riveli facile o scontato: è contemplata anche la possibilità di non riuscire a «vedere» ciò che appare all’uomo. La visione provoca normalmente una reazione di paura di fronte al mistero, percepito a un tempo fascinans et tremendum, reazione che si manifesta, ad esempio, nel cercare, soprattutto nelle grandi teofanie, di mantenere la distanza. La visione produce poi conseguenze concrete: cambiamento del nome, che indica una vita rinnovata (cf. Gn 32,31); azioni rituali e di fede (soprattutto nei racconti patriarcali); disponibilità a divenire testimoni di ciò che si è percepito (cf. Gv 20,18).

La Bibbia (soprattutto l’Antico Testamento) riferisce spesso l’esperienza del «vedere Dio» a un soggetto individuale nel pieno stato di coscienza e non (come in 1Re 18,28) in stato di trance o di sonno estatico. Il fatto in sé è normale, se si considera che la metafora della percezione visiva è per definizione l’esperienza cosciente di un soggetto. Lo sottolinea anche il frequente accostamento di visione e parola: chi «vede» Dio è anche un interlocutore che lo «ascolta» e gli «parla». Talvolta la presa di coscienza del soggetto giunge al termine dell’evento teofanico: è il caso di Agar dopo l’apparizione dell’angelo (Gn 16,13), di Giacobbe dopo la lotta notturna (Gn 32,31), di Gedeone di fronte all’angelo di Yhwh (Gdc 6,22) o dei discepoli di Emmaus al gesto dello spezzare il pane (Lc 24,31-32). In bilico fra due estremi (piena coscienza di «vedere» la divinità o stato estatico alienante), il dato biblico rifiuta l’uno e l’altro: l’uomo è cosciente non di «vedere», ma di «aver visto» la divinità.

Modalità particolare della manifestazione di Dio è il sogno, sebbene la visione di Dio in sogno sembri relativamente rara (cf. Gn 28,12-13; Nm 12,6; Mt 1,20): occorrerebbe distinguere tra i «sogni-messaggio» (prevalentemente uditivi) e i «sogni simbolici» o «allegorici» (che fanno riferimento a un complesso codice di immagini). Il sogno è strettamente correlato alla visione in Gl 3,1, che preannuncia un’effusione universale dello Spirito. Il sogno biblico è, tuttavia, caratterizzato da una certa sobrietà (a confronto con altre culture del vicino Oriente antico) ed evoca più la sensazione di una presenza, o di una particolare prossimità del divino, che una percezione visiva vera e propria. D’altra parte, se visione c’è nel sogno, è una visione dai contorni sfuocati, di cui non si può affermare con sicurezza – come nell’esperienza comune della percezione visiva –: «L’ho visto con i miei occhi»; appartenendo al dominio della notte, il sogno ne condivide il carattere di ambiguità. Il sogno accentua, poi, l’aspetto passivo del «vedere», l’iniziativa e la libertà di Dio nel suo rivelarsi. Un’enfatizzazione ulteriore dell’iniziativa divina si ha con il ricorso al sostantivo tardêmâ, un «torpore sacro» che scende sull’uomo indipendentemente dalla sua volontà (cf. Gn 15,12; Gb 4,13; 33,15).

La rivelazione biblica si preoccupa costantemente di equilibrare le affermazioni della visibilità divina e il carattere misterioso, limitato, nascosto del suo apparire[2]. Diversi testi e alcune tradizioni, poi, hanno cura di sottolineare l’ambiguità della percezione visiva. Poiché i sensi possono ingannare, è sempre necessario compiere un processo di purificazione dell’immagine divina che l’uomo ha maturato.

3. Le grandi teofanie dell’Antico Testamento

Nelle pagine dell’Antico Testamento risaltano alcune esperienze più marcatamente teofaniche[3].

Nei racconti patriarcali, la «visione» di Dio riguarda sia Abramo, sia soprattutto Giacobbe. Del primo si racconta l’esperienza notturna di Gn 15, conclusa con un rituale di alleanza. Il patriarca è spettatore passivo della rivelazione divina nel segno del fuoco, poiché viene colpito da un torpore sacro (tardêmâ). La scena teofanica è riassunta nel v.17, in cui l’accostamento di un elemento luminoso e di uno oscuro (fuoco e fumo), in un contesto notturno, tiene viva la tensione fra rivelazione e nascondimento. Eventi teofanici notturni riguardano anche Giacobbe, sia a Betel (Gn 28,10-22), sia nella lotta misteriosa allo Yabboq (Gn 32,22-33). Nel primo caso si tratta di un’esperienza onirica, in cui il patriarca «vede» dapprima una rampa che sale fino al cielo, poi angeli che mettono in comunicazione mondo di Dio e mondo dell’uomo, e infine la stessa divinità (ma significativamente, nella presa di coscienza del protagonista, l’ordine si inverte). In Gn 32, invece, tutto concorre a creare un clima di mistero e di oscurità, relegando la narrazione teofanica a un livello allusivo più che descrittivo, benché Giacobbe faccia l’esperienza di vedere Dio «faccia a faccia» (v. 31).

Grande importanza è riservata alla dimensione visiva nel brano di Es 3,1-6, che presenta l’apparire di Yhwh a Mosè in un orizzonte quotidiano; ciò che attira l’interesse del protagonista è la percezione della divinità come «un fuoco che non consuma». Ma egli sperimenta anche che la curiosità o il desiderio di «vedere» (v. 3) non raggiunge il proprio fine, e l’esperienza teofanica deve arrestarsi di fronte al mistero, come manifesta il gesto di coprirsi il volto per paura di guardare verso Dio (v. 6). Nel prosieguo del racconto, la dimensione visiva cederà il posto a quella uditiva: si tratta soprattutto di ascoltare e di obbedire a un Dio che parla per affidare una missione.

La stipulazione dell’alleanza sinaitica è strettamente collegata con eventi teofanici, in particolare in Es 19,16-25 che – per molti commentatori – segna il confluire di due tradizioni, centrate su un temporale e su un’eruzione vulcanica. I fenomeni straordinari segnalano l’epifania divina, ma si aprono anche (come il fumo e il suono del corno) a un’interpretazione liturgica. Le reazioni dei protagonisti sono descritte nel c. 20, ai vv. 18-21, qui confluiti dopo l’inserzione redazionale del decalogo: visione e parola si intrecciano. Lo stesso evento è narrato nel parallelo di Dt 4-5, che accentua l’invisibilità divina, fondando sull’esperienza sinaitica il precetto dell’aniconismo. Es 24,9-11 (riconosciuto da molti come postesilico) raggiunge il culmine dell’esperienza teofanica («videro Dio… contemplarono Dio»), sebbene l’oggetto della visione si riduca a ciò che si percepisce «sotto i piedi» della divinità (cf., inoltre, l’apparizione della «gloria» divina come un «fuoco divorante» – tema sacerdotale – nei vv. 12-18). In Es 33-34 la dimensione teofanica viene ripresa soprattutto a proposito di Mosè (in forma molto più sfumata nel parallelo di Dt 9-10), presentando sia l’intensità del desiderio umano («mostrami la tua gloria!»: 33,18), sia sul versante teologico il permanere della trascendenza («tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare in vita»: 33,20). Quest’ultimo versetto, divenuto nella storia dell’interpretazione il fondamento del «dogma» dell’invisibilità divina, in realtà è più volte sfumato nel contesto, come dimostra la contrapposizione fra il «volto» invisibile e le «spalle» visibili. Sebbene molti siano stati i tentativi di spiegare tale antropomorfismo, vedere Dio «di spalle», mentre passa, significa averne una percezione dinamica e non statica (a differenza dell’idolo), rispettarne il carattere trascendente e misterioso, rinunciare a «comprenderlo» con lo sguardo e disporsi alla sequela.

La pagina profetica che caratterizza maggiormente l’esperienza visionaria è Is 6. I vv. 1-8, che presentano numerose analogie con il parallelo di 1Re 22,19, benché non si possano considerare propriamente un racconto di vocazione, costituiscono un momento fondamentale della missione di Isaia. Uomo di Dio, egli lo conosce per tradizione, ma solo la visione lo abilita a essere profeta. Potrà essere mandato e potrà parlare perché ha visto. Il testo procede su due binari: afferma la realtà dell’esperienza di Dio avuta dal profeta, ma ne sfuma i contorni e ne attenua la portata, salvaguardando il senso della trascendenza e del mistero di Dio. L’espressione del v. 1 («vidi il Signore») rischia di suonare scandalosa per il rigido monoteismo ebraico. Ecco perché si sente la necessità di attenuarne la portata, ricorrendo al simbolo del trono «alto ed elevato» e limitando la descrizione del contenuto della visione agli orli del manto di Dio. Molti dei temi e delle immagini di Is 6 caratterizzano anche la visione iniziale di Ez 1,4-28: lo sfondo di luminosità e di splendore, in particolare, è amplificato da una serie di metafore e di locuzioni che tentano, in qualche modo, di dire l’indicibile.

Il tema del «vedere Dio» è tipico della letteratura profetica[4]. Comunque si consideri 1Sam 9,9, il profeta rimane sostanzialmente una persona che «vede». Le pagine profetiche, ad esempio, sono ricche di visioni simboliche: il profeta, attraverso la percezione di realtà quotidiane, di eventi particolari, di situazioni ordinarie, addirittura di oggetti comuni e banali, riesce a cogliere al di là dell’apparenza l’essenza di un Dio che parla. Come scrive A. Neher: «La visione normale è designazione. La visione profetica è significato». Il centro della vocazione e della missione profetica consiste, dunque, in questo intus legere, in questo saper «vedere oltre». Il profeta non è tanto il visionario, quanto piuttosto l’uomo in ascolto, che sa penetrare nel cuore della realtà.

Diverso è il posto della visione nell’apocalittica, dove il tema diviene predominante, ma teologicamente molto meno significativo: la visione diviene un elemento letterario necessario in quanto si presta alla rivelazione dei misteri divini, ma non aggiunge molto dal punto di vista della teologia e dell’antropologia della rivelazione. Particolarmente dense e complesse sono le sezioni di Zc 1-6 e Dn 7-12. La visione del figlio dell’uomo (Dn 7), che riprende immagini profetiche ed elementi mitologici, conoscerà una rilettura cristologica nel Nuovo Testamento e nella tradizione cristiana.

Nei salmi la locuzione: «Vedere il volto di Dio» (con le relative varianti), si riferisce a un contesto liturgico; diviene anzi un’espressione tecnica: «Cercare Dio» o «vedere il suo volto» significa frequentare il santuario[5]. A poco a poco, l’espressione procede verso una progressiva interiorizzazione. Per il credente è possibile «gustare e vedere» la bontà di Dio (Sal 34,9) e «saziarsi» della sua immagine (17,15). In tre contesti (11,7; 17,15; 63,3), in cui si parla di «contemplare» Dio o il suo volto, la metafora si inserisce pienamente nella dimensione della pietà personale. È il tentativo di esprimere l’ineffabile esperienza del divino ricorrendo alla ricchezza delle relazioni umane affettivamente più intense. Come altre parti dell’Antico Testamento, il salterio conosce poi la metafora di Dio che «nasconde» il suo volto, espressione dell’ira divina (27,9; 30,8) o riferimento alla sua «assenza» nella vita del credente (102,3). Se il volto è lo specchio della persona, un’identità che si offre allo sguardo, come veicolo di un evento relazionale (è sede della vista, della parola e dell’udito), l’espressione sembra indicare il sottrarsi divino alla possibilità di una relazione interpersonale.

Un esempio dell’aspetto paradossale della visione si ha nella conclusione del poema di Giobbe (42,1-6). Il v. 5 contrappone due momenti, caratterizzati da una diversa percezione di Dio: «Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono». L’atto visivo, al termine di un percorso di fede, è il vertice di un’esperienza personale di Dio, che suppone un legame più intimo e personale con la divinità, oltre che una coscienza rinnovata della sua libertà, della sua gratuità e del suo mistero. È, infatti, un «vedere» paradossale: Giobbe vede quando accetta di non vedere e rinuncia a voler capire a tutti i costi. Affermazione e negazione della visione, in questo caso, coincidono perfettamente. Nel desiderio di accedere alla visione, nella fatica della ricerca, nel rifiuto delle false immagini di Dio fornite dagli amici, nei paradossi della propria umanità, Giobbe (e con lui anche il lettore cristiano, che vi legge in trasparenza l’icona evangelica del Figlio) può effettivamente «vedere Dio».

Grande peso nella Bibbia ebraica ha, comunque, la proibizione dell’immagine cultuale, anche all’interno del decalogo (Es 20,4; Dt 5,8), ma non se ne danno motivazioni fondanti, se non in Dt 4: nessuna immagine è adeguata alla modalità della rivelazione divina, essenzialmente legata alla parola. Tuttavia, come scriveva già G. von Rad, non è l’unica interpretazione possibile, né la più antica. Di fatto, il divieto all’interno del decalogo riguarda l’immagine «scolpita» (pesel): è il visibile che si impadronisce dell’invisibile, lo limita, lo rende opaco, fermando prematuramente lo sguardo; è il visibile rinchiuso in se stesso, incapace di andare oltre. In tal senso si può interpretare il secondo comandamento non come una condanna perentoria dell’immagine, ma piuttosto come l’indicazione di un pericolo: dall’immagine all’idolo il passo è breve[6].

4. «Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9)

La dialettica fra rivelazione e nascondimento prosegue negli scritti neotestamentari, che partono da un fondamento nuovo e comune: la visibilità del Dio invisibile trova uno spessore e una consistenza nuovi nell’umanità di Gesù. Di quel Dio che «nessuno ha mai visto», il Verbo fatto carne ha dato l’esegesi (cf. Gv 1,18). La logica interna del prologo giovanneo sembra dimostrare questa doppia realtà: «vedendo» (theáomai) la gloria del Verbo fatto carne (v. 14), l’uomo ha una rivelazione del mistero «mai visto» (oráo, v. 18; cf. 5,37; 6,46). Perciò chi vede il Figlio vede il Padre (cf. 14,9) che lo ha mandato (cf. 12, 45): l’intima relazione fra le due persone divine permette a chi ha fede nel Figlio di riconoscerlo come immagine del Padre, luce che lo mostra perfettamente[7].

Visione e fede, nel quarto vangelo, sono intimamente correlate[8]. Soprattutto nel «libro dei segni» (1-12), l’accesso alla fede è dato dal vedere i segni che Gesù compie (cf. 2,23; 11,45). La volontà del Padre è che chi vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna (6,40). Ciò è particolarmente evidente nell’esperienza dei discepoli al sepolcro (20,1-10), un brano dominato dal vocabolario della vista. Maria, Pietro, il discepolo anonimo «vedono» segni via via più interni, ma solo l’intuizione d’amore di Giovanni, il «discepolo che Gesù amava», permette di accedere dalla vista alla fede. Il passaggio non è automatico, e occorre purificarne le motivazioni: Gesù rimprovera, infatti, coloro che credono solo se vedono segni e prodigi (cf. 4,48) oppure coloro che sono incapaci di cogliere i segni, e credono solo in funzione del proprio tornaconto (cf. 6,26; 12,37-43). Per il quarto vangelo si realizza anche la prospettiva contraria: occorre la fede per vedere la gloria di Dio manifestata nel Figlio. A Marta, in lacrime per la morte di Lazzaro, Gesù ribadisce che, se crede, vedrà la gloria di Dio (11,40): la possibilità ipotetica della fede apre alla realtà della visione certa. Per questo, il Risorto proclama beati coloro che credono pur senza aver visto (20,29).

Il vedere sfocia, poi, nella testimonianza. Il Verbo è il primo testimone di ciò che ha visto (cf. 3,11.32), perché «non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre» (5,19; cf. v. 20). Di conseguenza, anche il discepolo vede e testimonia (cf. Giovanni Battista in 1,34 e lo stesso evangelista in 19,35; 21,24). Anche in questo caso, l’esperienza della risurrezione è l’icona più chiara del nesso fra visione e testimonianza. Maria di Magdala (20,1.11-18) è la testimone gioiosa che corre immediatamente ad annunciare tutto ciò che ha visto e udito. Il tema assumerà un’importanza fondamentale nel prologo della prima lettera di Giovanni.

Il quarto vangelo ha elaborato una vera e propria teologia della visione: le persone che entrano in contatto con i segni compiuti da Gesù e, in ultima analisi, con la sua persona, sono chiamati a un «vedere» sempre più profondo, sempre più interiore, scoprendovi – attraverso la fede – il mistero di Dio che agisce e si rivela in lui.

Benché in misura minore, anche il terzo evangelista sviluppa il tema del «vedere», fin dai racconti dell’infanzia, descrivendolo poi come un desiderio dell’uomo (Lc 19,3; 23,8), proiettandolo infine al livello dell’incomprensione della Parola, che rimane come velata (9,45; 18,34)[9]. La visione centrale, capace di scuotere le coscienze e di stimolare una riflessione profonda è, tuttavia, la visione del Crocifisso morente (23,47-49): il centurione giunge alla fede, le folle sono costrette a ripensare all’accaduto, lasciando spazio al pentimento, e i discepoli rimangono a osservare. Che il vedere non sia un fatto automatico, lo dimostrano i discepoli di Emmaus (24,13-35). I loro occhi, centrati sulla propria sofferenza e prigionieri delle proprie attese, sono impediti dal riconoscere la presenza di Gesù risorto accanto a loro (v. 16), ma l’ascolto della Parola e la fede eucaristica li porta a riconoscerlo nello spezzare il pane: «Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (v. 31). Paradossalmente, il momento del riconoscimento, apice del racconto, coincide con l’invisibilità, poiché Gesù «sparì dalla loro vista», e l’immagine del Risorto viene sostituita dalla memoria del gesto eucaristico.

L’inno cristologico della lettera ai Colossesi (cf. 1,15) ridice in un altro modo la verità teologica del prologo giovanneo: il Figlio è l’«immagine (eikón) del Dio invisibile» (cf. 2Cor 4,4), «la concretizzazione storica di ciò che non si può vedere» (M. Orsatti). Il testo può forse aver riletto in senso cristologico alcune espressioni che l’Antico Testamento attribuiva alla Sapienza personificata[10].

L’Apocalisse, pur riprendendo molti elementi dell’apocalittica giudaica, si presenta come «profezia» (cf. Ap 1,3; 22,7.10.18.19), nel senso di lettura della storia rinnovata dalla presenza e dall’azione del Risorto. La visione è uno degli elementi strutturanti del libro[11]: visioni introduttive precedono le lettere alle sette chiese (1,9-20) e ciascuno dei tre settenari (4,1-5,14; 8,2-6; 12,1-15,8). Dai libri di Ezechiele, Zaccaria e Daniele l’autore dell’Apocalisse attinge molte immagini, espressioni letterarie delle visioni simboliche e lo stesso schema letterario della visione.

Caratteristica costante di questi racconti di visione è, tuttavia, una certa sobrietà descrittiva, che si concentra sull’essenziale del messaggio teologico, colto attraverso la forza evocativa del simbolo, il tutto inserito in una cornice liturgica: la comunità è invitata – per così dire – a lasciarsi portare dentro le visioni, per coglierne il senso e rileggere alla luce di questa rivelazione la propria realtà.

Nella Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) il tema della visione di Dio è trattato soprattutto come un’esperienza, una possibilità concreta (ed effettiva) del credente. Poco rilievo viene dato alla prospettiva escatologica, alla contrapposizione fra tempo ed eternità, relegata in pochi testi, quali 1Cor 13,12, dove l’affermazione ricorre in forma subordinata al tema della carità. «Ora – scrive Paolo – vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia». «Quando egli si sarà manifestato – gli fa eco 1Gv 3,2 – noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è». Secondo una prospettiva ellenistica, l’essere umano che conosce Dio è divinizzato, è reso simile a lui. Per Giovanni, in modo particolare, questa esperienza è mediata dal Figlio, che dalla visione di Dio attinge la sua uguaglianza con lui, e il cristiano, che già fin d’ora «ha visto» la sua gloria, è realmente figlio, nell’attesa che ciò si realizzi in pienezza.

5. «Visione» e «visioni» nella cultura dell’immagine

Rispetto agli ambienti in cui si è attestata la rivelazione biblica, la nostra cultura è molto più dominata dall’immagine, a cui è disposta ad accordare un surplus di credibilità. Anche nel campo religioso si fanno spesso strada spiritualità «visionarie» alienanti. Paradossalmente, è importante recuperare l’importanza del dato biblico sul «vedere» per purificare il più possibile tali impostazioni, distinguendo opportunamente fra «visione» e «visioni». La «visione» biblica, in senso proprio, non è né un’esperienza di pochi privilegiati, né una condizione estatica e neppure l’anticipazione di realtà future. È piuttosto il dinamismo e il maturare dell’esperienza di Dio, che attinge il suo fondamento nel cammino di fede e che porta a convertire costantemente la propria immagine di Dio e di sé, abilitando a essere testimoni di quell’incontro.

Se la tentazione «visionaria» implicita in ogni forma di religiosità tende a un’esperienza mistica di eccitazione e dissolvimento di sé, fino a un progressivo esaurimento della coscienza dell’io (di cui possiamo trovare un’icona biblica nella danza rituale dei profeti di Baal sul Carmelo: cf. 1Re 18), la «visione» biblica – spesso collocata all’interno di un dialogo e/o inserita in un racconto di vocazione – fa appello invece all’esperienza di un rapporto io-tu. Il Dio d’Israele è «persona» ed esige la controparte dell’individuo come «persona». Il Dio che appare non è uno «spettacolo» (per quanto estasiante) da contemplare, come comprende Mosè al roveto, ma un interlocutore da ascoltare e con cui entrare in comunione d’amore.

Roberto Fornara

docente di esegesi e spiritualità veterotestamentaria
presso la Pontificia Facoltà Teologica «Teresianum» e
docente incaricato di Teologia biblica del Primo Testamento
presso la Pontificia Università Gregoriana – Roma

Articolo tratto dalla Rivista “Credere oggi” 198 6/13



[1] Cf. J.-M. Vincent, «Ils virent la voix». Réflexions théologiques sur la vision dans l’Ancien Testament, in «Etudes Théologiques et Religieuses» 78 (2003) 1-23.

[2] Cf. S.E. Balentine, The Hidden God. The Hiding of the Face of God in the Old Testament,OxfordUniversity Press,Oxford 1984.

[3] Per un’esposizione più dettagliata, si veda R. Fornara, La visione contraddetta. La dialettica fra visibilità e non-visibilità divina nella Bibbia ebraica, PIB, Roma 2004. Lo studio classico sulle teofanie dell’Antico Testamento rimane quello di J. Jeremias, Theophanie, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1965. Sulla teofania sinaitica cf. B. Renaud, La Théophanie du Sinaï. Ex 19-24. Exégèse et théologie, Gabalda, Paris 1991.

[4] Cf. A. Behrens, Prophetische Visionsschilderungen im Alten Testament, Ugarit Verlag, Neukirchen-Vluyn 2002.

[5] Un’esposizione del tema si può trovare in G. Helewa, Il desiderio di Dio nella pietà dei Salmi, in «Rivista di vita spirituale» 33 (1979) 21-38.138-154.277-292; M.S. Smith, «Seeing God» in the Psalms. The background to the beatific vision in the Hebrew Bible, in «Catholic Biblical Quarterly» 50(1988) 171-183.

[6] Cf. A. Luzzatto, L’aniconismo ebraico fra immagine e simbolo, in T. Verdon (ed.), L’arte e la Bibbia, Biblia, Settimello (FI) 1992, 87-101.

[7] Cf. I. de la Potterie, «Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9). Dalla storia al mistero, in E. Guerriero – A. Tarsia (edd.), L’ombra di Dio, San Paolo, Cinisello B. 1991, 53-71.

[8] Cf. R. Boily – G. Marconi, Vedere e credere. Le relazioni dell’uomo con Dio nel quarto vangelo, Ed. Paoline, Milano 1999; F. Ramos Pérez, Ver a Jesús y creer en Él. Estudio exegético-teológico de la relación «ver y creer» en el evangelio según san Juan, PUG, Roma 2004.

[9] Sul vangelo di Luca, cf. G. Marconi, La comunicazione visiva nel vangelo di Luca, Ed. Paoline, Milano 1997; Id., Il Dio da vedere. Racconti lucani del giorno di Pasqua, in «Rivista di estetica» 37 (1997) 153-167; S. van Tilborg – P.C. Counet, JesusAppearances and Disappearances in Luke 24, Brill, Leiden – Boston – Köln 2000.

[10] Cf., in particolare, Sap 7,26, dove la Sapienza è definita immagine (eikón) della bontà divina.

[11] Cf. P. Prigent, Pour une théologie de l’image. Les visions de l’Apocalypse, in «Revue d’histoire et de philosophie religieuses» 59(1979) 373-378.

 

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